Hikikomori

Con il termine “Hikikomori”, che letteralmente significa “avere la tendenza a ritirarsi”, da hiku, “tendere” e komoru, “ritirarsi”, viene indicato il fenomeno sociale per cui un certo numero di individui giapponesi, per la maggior parte adolescenti, sceglie di recludersi a tempo indeterminato tra le pareti della propria stanza, rifiutando il contatto con il mondo esterno.
Il primo caso associabile a questo fenomeno venne identificato nel 1978 e lo studioso Yoshimi Kasahara, all’interno di uno studio riguardante le varie tipologie di isolamento sociale giovanile, lo definì come una “neurosi da ritiro”; successivamente, nel 1998 il dottor Tamaki Saito, specializzato in psichiatria adolescenziale, coniò l’espressione “Hikikomori”, attraverso il quale oggi ci si riferisce sia allo stato di isolamento che all’individuo stesso che pratica l’autoreclusione.
Il dibattito principale intorno al fenomeno, riguarda il fatto di considerarlo o meno una patologia derivante da disturbi psichiatrici: da una parte sono numerosi i casi in cui i medici si sono approcciati agli hikikomori, somministrando farmaci usati a fronte di sintomi schizofrenici e deliri paranoidi; dall’altro molti antropologi, giornalisti e studiosi, che si sono occupati di approfondire la questione, tra cui Saito stesso, escludono totalmente il disturbo mentale come causa di questa condizione, nel tentativo di analizzare il fenomeno e le sue motivazioni attraverso lo studio del tessuto sociale giapponese e delle sue istituzioni.
Una prima indagine in merito, si è svolta tra il 2002 il 2006 grazie ad un’iniziativa del World Mental Health Survey Initiative, rivelando che il campione di hikikomori intervistato era composto sia da individui che, prima del ritiro avessero presentato stati mentali alterati alterati causati da ansie, disturbi dell’umore e del controllo degli impulsi, sia da individui perfettamente lucidi e consci nel momento in cui avessero scelto di isolarsi. Tuttavia, riguardo i dati statistici concernenti il numero di casi, l’analisi più rilevante finora è stata svolta nel 2016 e ha dimostrato che questi ammontassero a 541000.
Intanto nel 2003 il fenomeno è stato finalmente riconosciuto per la prima volta dal Ministero della sanità giapponese e contemporaneamente sono state fornite anche le prime indicazioni per individuarlo: venne stabilito che un individuo potesse essere definito un hikikomori, solo se avesse manifestato il desiderio di abbandonare la scuola o il lavoro prima di recludersi, e se il suo ritiro avesse una durata pari ad almeno sei mesi.
La suddivisione tra le due tipologie di ritiro del 2006 e l’azione presa dal Ministero della sanità, hanno fatto sì che il fenomeno non venisse più solamente catalogato superficialmente come una patologia della psiche, spianando la strada a chi cercasse di dare un’interpretazione antropologica basata su una visione globale, al fenomeno.
È il caso del giornalista americano Michael Zielenziger che, con il testo scritto nel 2007 “Non voglio più vivere alla luce del sole”, sostiene la tesi secondo cui il fenomeno presenti caratteristiche tipicamente giapponesi: per l’autore infatti i casi di isolamento, rappresentano una conseguenza più che logica di in una società che sarebbe permeata da sentimenti di vergogna e orgoglio, tali da paralizzare con estrema facilità i suoi cittadini.
In quest’ottica, Zielenziger afferma che “ogni giapponese è un potenziale hikikomori”.
I principali contesti, che secondo questa visione condizionano maggiormente l’individuo a diventare un autorecluso, sono rintracciabili nell’istituzione scolastica e in quella lavorativa.
Tamaki Saito infatti, riporta che il 90% degli hikikomori sia stato assente da scuola per lunghi periodi prima di iniziare il ritiro. Ciò è sicuramente da imputare principalmente a episodi di bullismo molto frequenti, che si esprimono con atteggiamenti ostili e violenti a livello psicologico, trattando la vittima con estrema indifferenza attraverso una “pratica del silenzio”, in giapponese chiamata mushi.

Disordered Otaku room

Secondo Kenji, un ragazzo hikikomori vittima di bullismo intervistato da Zielenziger, in Giappone le opinioni altrui sono considerate in modo eccessivo e che per questo, molti adolescenti tendono a non voler essere se stessi, indossando delle tate mae, espressione che letteralmente significa “maschere” e indica le varie personalità da usare in base a contesti differenti.
Oltre al bullismo, viene attribuita la colpa del fenomeno anche ai ritmi troppo pressanti in ambito scolastico e lavorativo: sin dalla tenera età, molti bambini giapponesi sono obbligati dai genitori a frequentare dei juku, corsi di studio intensivi finalizzati al superamento gli esami di ammissione per le migliori scuole elementari del paese.
In alcuni casi questi corsi hanno tuttavia un effetto controproducente, spingendo alcuni studenti a voler studiare a casa e successivamente ad abbandonare la scuola: uno dei fattori principali che porterebbe alla condizione di hikikomori.
Lo psicologo affermato Yuichi Hattori, specializzato in disturbi dissociativi dell’identità, trova che in merito all’origine dei ritiri giochino un ruolo fondamentale anche le dinamiche familiari giapponesi. Hattori, a conferma della sua tesi, ha effettuato un’indagine su un campione di trentacinque autoreclusi, rivelando che ognuno di essi avvertisse un senso di rifiuto da parte dei propri genitori, che mantenevano le dimostrazioni di affetto al minimo.
Schiacciato dalla paura di non essere voluto o apprezzato, è possibile secondo lo psicologo, che un futuro hikikomori, nel tentativo di adattarsi a questa condizione, si sia trovato a creare una falsa personalità per mezzo della quale cerchi di dimostrare di essere ciò che gli altri si aspettano da lui, reprimendo bisogni e sentimenti comuni a un qualsiasi bambino o adolescente.
Una famiglia giapponese, in generale, tende a essere organizzata come una piccola impresa in cui ognuno deve svolgere un ruolo prestabilito: il padre è spesso assente a causa della grande quantità di straordinari lavorativi che deve svolgere, mentre la madre si occupa minuziosamente della gestione della casa e dell’istruzione dei figli.
È stato notato che per questa ragione, tra madre e figlio venisse talvolta a instaurarsi un rapporto basato sul concetto giapponese dell’amae, termine coniato dallo psicoanalista Takeo Doi, che indica una relazione di dipendenza reciproca, per cui un individuo si comporta in modo tale da ricevere protezione e approvazione da parte di un altro.
Successivamente, per mezzo di una ricerca effettuata dallo psichiatra Saito, si registrò che almeno nel 95% dei casi di giovani hikikomori da lui analizzati, l’autorecluso avesse sviluppato questo rapporto simbiotico e ossessivo con la madre.
Ad ogni modo, nonostante le riflessioni degli esperti sopracitati, siano certamente da considerare nell’insieme delle possibili cause che conducono molti individui all’isolamento, risulta un po’ approssimativo imputarne interamente la colpa all’assetto della società giapponese: come in un certo senso risultava insoddisfacente catalogare a priori il fenomeno sotto il profilo di malattie preesistenti.

Per destreggiarsi meglio all’interno di questo dibattito che è ancora in corso, potrebbe essere quindi opportuno cercare di delineare il fenomeno facendo riferimento alle definizioni antropologiche di disease e illness, le quali, pur mostrando differenze semantiche, rappresentano entrambe accezioni per il termine “malattia”: con disease infatti si intende una patologia intesa in senso scientifico, con illness invece, si indica una condizione di sofferenza del paziente, che può non derivare per forza da alterazioni organiche del soggetto.
Il secondo caso infatti, può insorgere senza che si verifichi il primo e per questo, potremmo azzardare ad affermare che il fenomeno sia effettivamente una malattia, almeno dal punto di vista sociale; in quanto risulta evidente la condizione di malessere precedente all’autoreclusione, unica causa dello sviluppo in un secondo momento, di condizioni mediche gravi associabili a depressione e disturbi ossessivi.
Di seguito, considerando che questi sintomi scaturiti dall’isolamento, non siano associabili a patologie note, potremmo procedere a considerare il fenomeno sotto il profilo di una sindrome culturalmente condizionata, espressione che indica comportamenti bizzarri e inusuali, generati da malesseri causati dalla mescolanza di fattori psichiatrici, antropologici, biologici, storici e sociali, tipici e identitari di un’area geografica specifica.
Ciò spiegherebbe perché in alcuni casi gli hikikomori riescano a guarire, semplicemente soggiornando per un po’ di tempo lontani dal paese di origine.
Un hikikomori potrebbe quindi incorporare davvero sensazioni di disagio e ansia dovuti all’eccessiva pressione scolastica, lavorativa o familiare, ma bisogna anche considerare che certe sensazioni vengono poi a mescolarsi ad una quantità di elementi esterni e interni – come traumi, aspetti caratteriali o delusioni – tale da non permetterci di stabilire con assoluta certezza, quali di questi abbia influito maggiormente nella decisione di escludersi dalla dimensione sociale.
Riterrei dunque, che considerare il fenomeno come una sindrome culturalmente condizionata favorisca una visione d’insieme di questa condizione, salvandoci così dall’errore di combattere uno stereotipo con un altro stereotipo: potrebbe essere controproducente infatti, sia dare per scontato che il fenomeno derivi da disturbi psichiatrici o dalla pigrizia di ragazzini svogliati – come molti adulti pensano – sia voler combattere questo pregiudizio cercando di definire a priori una stessa causa per centinaia di migliaia di casi diversi, mettendo in luce i difetti di una società, per avvalorare posizioni fin troppo categoriche.
Questo fenomeno sociale infatti è spesso soggetto a generalizzazioni: una delle più diffuse è quella di confondere gli hikikomori con gli otaku, una subcultura giapponese che può praticare l’isolamento sociale per dedicarsi agli hobby, soprattutto videoludici, per i quali ha sviluppato una dipendenza. Il fatto che gli hikikomori, in alcuni casi, usino il computer per giocare o frequentare piattaforme social, non ha niente a che fare con le motivazioni alla base del loro ritiro; considerando anche il fatto che i primi casi sono precedenti alla nascita di internet e allo sviluppo tecnologico che troviamo oggi.
Col tempo comunque, il Giappone sta man mano prendendo coscienza dello stato di isolamento in cui si trova un numero importante dei suoi cittadini, favorendo la nascita di associazioni no profit che si occupano di aiutare hikikomori intenzionati ad uscire dalla loro condizione.
Le più conosciute sono la New Start e la Free Space Wood: entrambe utilizzano una terapia fondata sulla comunicazione che esclude le categorie sociali: all’interno di questi centri infatti non esistono ruoli stabiliti per far sì che il paziente possa relazionarsi più facilmente agli altri, tornando gradualmente a vivere la dimensione sociale che aveva abbandonato.

Autore

Gessica Fabbrucci