Doveva essere una vacanza di mare…

OKINAWA

Si perché dopo aver preso il brevetto per le immersioni open water alle isole Perenthian in Malesia, e dopo aver ottenuto l’advanced alle isole Gili in Indonesia, cercavo un altro paradiso sommerso dove poter praticare il mio nuovo hobby/passione. E così, un po’ per caso, un po’ perché la stagione delle piogge mi faceva dubitare di altre mete a rischio tifone più vicine a casa mia (vivo da un anno ad Hong Kong), decido di prendere un biglietto di andata e ritorno per Naha, Okinawa.

A differenza di tanti “malati di Giappone”, per me è il primo viaggio nel paese del Sol Levante e non parlo una parola di Giapponese. Viaggio solo e senza prenotazioni nè pianificazioni.

La vacanza inizia sotto i migliori auspici, infatti l’aereo è affollato e io vengo spostato in business class senza dover pagare nulla. Bene, bravi, bis!

Dopo neanche 3 ore di volo atterro a Naha e dopo un giro per la piacevole città e una notte in ostello su un letto durissimo, mi imbarco sul primo traghetto per Zamami-jima, la più grande delle isole Kerama. Dopo un primo impatto devastante (io non parlo giapponese e quasi nessuno sull’isola parla inglese; la borsa pesa e i pochi hotel che trovo son pieni), riesco a trovare un alloggio semplice ma caro ed esco a cercare il mare, trovando pazzesco che su di un’isola minuscola la spiaggia più vicina al villaggio sia a mezz’ora di cammino. Ma poi arrivo in paradiso e ogni negatività sparisce. Una delle piu’ belle spiagge mai viste in vita mia (e ne ho viste parecchie…), quasi deserta, con un’acqua (fredda) limpida capace di raccogliere tutte le tonalità di azzurro e blu esistenti in natura, immersa in un paesaggio da Jurassic Park, circondato da isolette e spiagge altrettanto spettacolari.

KYOTO

Dopo tre giorni alle Kerama (ho visitato anche Aka-jima) a base di immersioni memorabili e giri delle isole in motorino, decido che è ora di conoscere qualcosa in più del Giappone: torno così a Naha e volo ad Osaka, dove atterro in mezzo ad un nubifragio. Ecco, lo sapevo, dovevo restare al mare!

Mi butto sul primo treno per Kyoto, dove trovo un hotel comodo e carino a due passi dalla stazione, lascio la borsa ed inizio un pellegrinaggio a base di templi e giardini che che mi svuoterà di energie fisiche, ma mi riempirà di pace ed energie mentali come raramente mi era accaduto in passato. Rimango stupito, quasi traumatizzato, dalla bellezza di Kyoto, da quanto questo posto è in grado di mettermi in pace con me stesso, tranquillizzandomi con la sua armonia, con la purezza delle sue forme, con la sua storia che fa capolino ad ogni angolo. Per la prima volta da quando sono partito mi rendo conto di essere in Giappone e, soprattutto, di essere felicissimo di esserci, di averlo scelto casualmente, e di aver seguito a naso, senza pianificare nulla, l’itinerario suggerito dal mio istinto. Cammino ininterrottamente per tre giorni, da Higashiyama ad Arashiyama, dal Nishioji al Fushimi-Inari, da Kinkaku-ji alla path of filosophy, e non rimango mai deluso, estasiato dalla bellezza dei giardini e dalla facilita’ con cui, pur perdendomi, riesco sempre a trovare qualcosa da vedere e da fare, una casa, un tempio, un onsen, un bar, da cui esco sempre contento di esserci entrato.

TOKYO

Dopo questa mistica overdose di Kyoto mi autoimpogno di spostarmi a Tokyo, un po’ perché morivo dalla voglia di provare lo shinkansen, un po’ perché era venerdì e avevo necessità di un po’ di rumba. Arrivo distrutto dalla maratona di Kyoto e mi violento per fare un salto a Roppongi per una serata che non mi entusiasma particolarmente e che mi impedisce, ovviamente, di fare la mia comparsa al mercato del pesce prima dell’una del giorno dopo. Un po’ deluso faccio rotta su Akihabara (di templi ne avevo abbastanza, volevo gustarmi un po’ Tokyo nella sua “normalità”) dove sostanzialmente passo la giornata a ridere per la follia di quel posto e dei suoi frequentatori, saltando con naturalezza dai Sega Building ai sexy shop a 6 piani, dall’hi-tech ai fumetti, dai venditori di manga ai negozi di giocattoli vintage dove Daitarn III ancora imballato lo paghi più di 1000 euro…

Capisco che per apprezzare appieno Tokyo dovrei viverci almeno un mese, e così , dopo una serata a Shibuya e un giro per Shinjuku, comincio a guardare la sezione “dintorni di Tokyo” della Lonely Planet, scoprendo che il 1 luglio apre ufficialmente la stagione delle scalate del monte Fuji. Si, proprio lui, il Fujiyama che vegliava su madamoiselle Anne quando ero piccolo, quello che nelle sue viscere nascondeva la base di Goldrake e che, di riffa o di raffa, compariva in TUTTI i cartoni animati della mia infanzia.

PAZZA IDEA

Mi rendo conto che è già il 30 giugno e che il 2 devo dormire a Okinawa perché il 3 devo tornare a casa. Sostanzialmente ho 48 ore per: studiare il tragitto, organizzare gli spostamenti, andare al Fuji, scalarlo, scendere e tornare a Tokyo in tempo per prendere il Narita Express delle 13.10 del 2 luglio. Mission impossible, ma ci provo lo stesso.

Il piano è: dormire, sveglia alle 7, bus per la ridente località montana/lacustre di Kawaguchiko (da cui poter scattare le famose foto del Fuji tipo cartolina), fare un breve giro del lago, prendere un bus per la quinta delle dieci stazioni in cui è diviso il cammino dalla base alla vetta del Fuji, attaccare il vulcano nel pomeriggio, dormire in un rifugio e riprendere la marcia in notturna per arrivare in cima in tempo per vedere l’alba. Mi fiondo al centro commerciale della stazione di Shinjuku per comprare un maglione pesante e delle scarpe da montagna (“doveva essere un viaggio di mare!”); tutto costa il doppio che in Italia ma e’ meglio far crepare l’avarizia che dover crepare io di freddo.

Trovo la sede della Highway Bus e riesco a comprare il biglietto di andata per Kawaguchiko e quello di ritorno direttamente dalla quinta stazione a Shinjuku, mandando totalmente in trip iperconfusionale la mente giapponese della commessa (per la quale e’ inconcepibile voler comprare un biglietto per una destinazione per poi voler tornare da un posto differente).

Ho tutto. Il piano c’è e sembra fattibile, seppur estremo. Abbigliamento leggerino, ma sufficiente per sopravvivere. Viveri zero. Prenotazione del rifugio zero. Energia in cambusa zero. Tradotto: se non fila tutto liscio e’ un casino. Realizzo di non avere nemmeno una torcia, ma il mitico Lawson, aperto 24/7 mi salva in extremis e con un bel 20 euro e’ passata la paura.

LA SCALATA DEL FUJI

1 Luglio: alle 8.40 di mattina parto per Kawaguchico, dove arrivo un paio d’ore dopo. Non si vede nulla, è tutto grigio. Chiedo speranzoso a una signora dove sia il Fuji e quella indica il punto più nero di tutto il cielo grigio. Mi sento come Frodo davanti al Nero Cancello. Capisco che di giretto intorno al lago e di foto da cartoline non se ne parla e opto quindi per un più pratico “via il dente via il dolore”: bus e quinta stazione. A noi due Fuji!

E’ circa l’una di pomeriggio e il clima è esattamente quello della partita di tennis tra Fantozzi e Filini. Nella nebbia (che in verità sono nuvole, perché ridendo e scherzando sono già a 2000 metri slm) scorgo drappelli di gente, che deduco siano altri matti come me, solo che sono vestiti come per andare sull’Everest. C’è aria di festa, perché in Giappone l’apertura della stagione del Fuji e’ una festa, anche religiosa credo. Fatto sta che ci sono anche delle troupe televisive e una di queste mi assedia ed ecco che scatta l’intervista al turista idiota che scala il Fuji in jeans. La domanda più ricorrente è: “non credi che avrai freddo lassù?” e io gli rispondo solo Nagatomo e forza Inter, mostrandogli gli strati multivestiti tipo cipolla che mi porto sotto al k-way primaverile.

Ormai quasi certo del nefasto destino che mi attende mi incammino sul sentiero a visibilità zero. Memore delle passeggiate con papà in Val d’Aosta, prendo un ramo da terra e lo uso come bastone, atteggiandomi a montanaro esperto, ma sentendomi palesemente nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ma ormai sono in ballo e con la prima stanchezza (dopo neanche 10 minuti) la situazione mi è chiarissima: è una sfida. Non al Fuji, ma a me stesso (nota dell’autore: sono una persona di una pigrizia senza eguali e odio ogni tipo di fatica tranne una). Il tragitto dello Yoshida Trail è di 6 km e dovrò farli tutti.

Il cammino è quasi in piano per la prima ora, ciononostante l’aria è rarefatta, sudo parecchio per la fatica. I primi 2 km volano in poco più di un’ora e penso che la guida la mette giù un po’ troppo dura, posso farcela tranquillamente in 4 ore, altro che 6/8 ore…

Ma ecco che, per la serie “le ultime parole famose”, il sentiero si impenna e diventa un mortale zig-zag su terreno instabile (sassi di lava) che rende ogni passo un supplizio e trasforma la marcia in una lentissima via crucis. A furia di salire sono uscito dalle nuvole, sto sopra le nuvole, e comincio a vedere i colori, stupendi, che solo i paesaggi vulcanici possono regalare: quelli di un film post-apocalittico.

Arrivo alla settima stazione e sono stremato e vorrei fermarmi lì, ma in un impeto di ottimismo, quella mattina, avevo prenotato un rifugio dopo l’ottava stazione, il che significava almeno un’altra ora di supplizio. Ma più salgo e più sto bene, trovo il passo, trovo il ritmo, il respiro si stabilizza e col mio bastone fai da te mi sento invincibile. Le nuvole sotto di me si aprono un attimo e riesco pure a vedere un lago (quale dei cinque, chi lo sa).

Lo zig zag continua ma la strada ora è una vera pietraia da scalare, e ogni passo vuole uno sforzo da 10 passi: e’ una tortura. Ma nonostante tutto, in sole 4 ore e mezza, sono al mio rifugio, che nel frattempo la mia mente aveva trasformato in paradiso terrestre: l’agognato Hakun Soo non era malaccio, 7.500 Yen per un “letto” spalla a spalla col tuo vicino puzzone e un rancio a base di rice&curry. Non sono neanche le 7 di sera quando crollo nel sonno, ben conscio che la sveglia avrebbe suonato all’una e mezza di notte per l’ultimo supplizio che mi avrebbe portato in cima.

Mi sveglio riposato e determinato nel cuore della notte, bevo una cioccolata calda e parto; ed è bellissimo: sopra e sotto di me, un’infinita linea di puntini luminosi indica le torce delle centinaia di folli che stanno compiendo la mia stessa impresa. Tutti insieme. La moltitudine da un lato mi ha dato nuova forza e convinzione, dall’altro ha rallentato parecchio i ritmi di salita, su un terreno ormai davvero impervio e, complice la stanchezza, pure un pelino pericoloso. Infatti quando leggo il cartello 30 minuti alla vetta un barlume di luce comincia già a rischiarare l’orizzonte della notte. “No cacchio, aspetta! Devo vedere l’alba dalla cima!”. E sprinto. Come Pantani sul Mortirolo. Sento il dolore scoppiarmi nelle gambe ma continuo a sprintare, e nella mia testa sento il commento RAI: “si alza sui pedali e non lo ferma più nessuno”…

E ce la faccio! Vedo il cancello, e i leoni che fanno la guardia alla porta del cielo, che ora è più chiaro, ma non è ancora l’alba. Sulla faccia, stravolta, mi si dipinge un sorriso beone. Il freddo mi ghiaccia il sudore nei vestiti, e le dita ghiacciate fanno fatica a reggere il mio telefono per fare le foto a testimonianza della mia impresa.

Sto su circa un’ora, fino alle 5 e qualcosa, e mi godo, in trance, il cambio della guardia tra notte e giorno, il mutamento dei colori, il cratere che prende vita. E il sole, che fa capolino da un mare di nuvole azzure che ondeggia sotto di me, infinito.

Non potevo immaginare che la discesa sarebbe stata ancora più faticosa (le gambe in acidosi soffrono di più a scendere) sebbene fosse durata “solo” 3 ore. Non sapevo che mi ci sarebbe voluta una settimana per tornare a camminare normalmente. Mi godevo il momento ed ero felice, e pure un po’ orgoglioso.

E’ stata dura, folle, ma ne e’ valsa la pena.

E si, sono riuscito anche a prendere il Narita Express delle 13.10.

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